mercoledì 11 febbraio 2015

IL MENSILE DI MONTEVERDE HA INTERVISTATO MAURIZIO CALVESI

Maurizio Calvesi, direttore della fotografia italiano, ha contribuito alla realizzazione di circa sessanta film. 
Candidato ai David di Donatello nel 2003 per il film Prendimi l’anima e nel 2008 per I vicerè, entrambi con la regia di Roberto Faenza, si racconta al Mensile di Monteverde mostrando ai lettori una pagina del grande cinema italiano.
“Ho abitato parecchi anni a Monteverde” racconta Maurizio “mi sono poi trasferito vicino Piazza Navona e vi sono rimasto per circa venticinque anni; sono tornato qui solamente un anno fa. Devo dire che in pieno centro storico c’era una mentalità molto più simile a quella di un paese e questo mi piaceva molto. Conoscevo quasi tutti nella zona; il postino lasciava i pacchi al bar, quando non c’era il portiere; se andavo al ristorante e non avevo il portafogli ripassavo in seguito a saldare il conto. Qui, invece, mi sembra tutto un po’ più freddo. A malapena conosco i miei vicini di casa e trovo che questo sia un gran peccato; il quartiere andrebbe vissuto appieno e non in maniera così limitata”. 
Una domanda che non ti è mai stata fatta ma che ti sarebbe piaciuto ricevere?
Di questo lavoro si tende sempre a vedere gli aspetti positivi, ma non ci si chiede mai se sia necessario rinunciare a qualcosa per svolgerlo. Si tratta di un lavoro meraviglioso che tuttavia richiede un grande sacrificio.  Spesso costringe ad allontanarsi dagli affetti più cari e a restare distanti da casa anche per parecchi mesi. 
Quali sono le principali mansioni di cui un direttore della fotografia deve occuparsi durante le riprese di un film?
Il direttore della fotografia è il collaboratore più stretto che il regista ha per quanto concerne gli aspetti tecnini del film. Naturalmente accanto al direttore della fotografia lavorano numerosi assistenti e collaboratori che contribuiscono alla realizzazione del film.
Quando nasce l’idea di girare un film e se ne scrive la sceneggiatura, emerge poi la necessità di trasformare quel testo in immagine e proprio a questo punto interviene il direttore della fotografia.
L’obiettivo è quello di conferire all’immagine la struttura che meglio riesce ad interpretare la sceneggiatura stessa.
A partire dal 2002, con il film “Prendimi l’anima”, hai intrapreso numerose collaborazioni con il regista Roberto Faenza. Parliamo proprio di “Prendimi l’anima”, qual’è stata la sfida maggiore che hai dovuto affrontare lavorando a questo film?
Il copione di “Prendimi l’anima” era nel cassetto di Roberto Faenza da ben dieci anni. Il regista era estremamente affascinato dalla storia di questa donna, Sabina Spielrein, che passa dall’essere amante di Jung al divenire ella stessa psicoanalista.
Mi sono avvicinato a piccoli passi alle idee che Roberto aveva sviluppato nel corso degli anni. Ho letto numerosi testi che potessero aiutarmi a comprendere meglio il periodo storico nel quale si svolgevano i fatti narrati dal film. Sono entrato nel difficile mondo dell’analisi, con il quale non ero mai entrato in contatto prima di quel momento.
All’epoca, poi, venivo da un tipo di cinema molto formale e “Prendimi l’anima” ha rappresentato l’occasione di realizzare un lavoro estremamente più spontaneo da parte mia. Ho ancora nel cuore l’immagine del manifesto del film. Si tratta di un fotogramma nel quale la luce radente e la posizione delle due figure da all’immagine una conformazione quasi cerebrale.
Quali sono i punti in comune tra la fotografia cinematografica e la fotografia tradizionale?
Spesso si tende a confonderle. Si parla di fotografia in generale e non se ne comprendono le differenze. Per me tutto è iniziato con la fotografia tradizionale. Mio zio mi regalò una macchina fotografica per la mia prima comunione. Io ero un bambino timidissimo e non parlavo mai con nessuno.  Iniziai ad andare alle feste di compleanno con la mia macchina fotografica al collo e quando tornavo a casa, di notte, mi chiudevo in bagno, sviluppavo i rullini e stampavo le foto. Si trattava anche di un modo per relazionarmi con gli altri, nonostante la mia timidezza. Da quel momento ho capito che avrei dovuto lavorare con le immagini.
La fotografia del set nasce perchè si vuole rendere quell’attimo di cinema immortale. Basti pensare ad Anita Ekberg. L’immagine di quella meravigliosa ragazza nella fontana rimarrà per sempre eterna.  Quindi la fotografia cinematografica va oltre il racconto di una storia, c’è qualcosa di più profondo che va afferrato.
Tra i numerosi film per i quali hai lavorato sei rimasto particolarmente legato a qualcuno di essi?
Non c’è un film a cui sia affezionato in maniera particolare. Ognuno di esso ha avuto la sua importanza, Anche una pellicola sbagliata ha un ruolo fondamentale, perchè ne precede una nuova in cui si eviterà di commettere gli stessi errori. 
Ci sono stati, invece,  film in cui sento di aver sperimentato molto di più rispetto ad altri, questo si.
Hai ancora aspettative di sperimentazione?
Si assolutamente. Con l’esperienza accumulata nel corso degli anni ho compreso che fare una bella fotografia nel cinema “medio” non è molto semplice. Si riesce ad ottenere il meglio nella grande ricostruzione, quindi nei grandi mezzi, oppure nel cinema minore. Anzi, proprio quest’ultimo offre le maggiori opportunità di sperimentazione. Esso, infatti, consente una maggiore libertà di organizzazione, fattore che manca invece nei cosiddetti “star system” produttivi, nei quali si hanno tempi che bisogna necessariamente rispettare, regole e formalismi che purtroppo impediscono slanci fuori dagli schemi. A breve parteciperò alla realizzazione di un film di questo tipo, con attori sconosciuti, girato interamente ad Ostia. L’obiettivo è quello di renderlo il più naturale possibile, deve essere un film vero.

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