giovedì 12 febbraio 2015

SCARLETT JOHANSSON FOTOGRAFATA DAL MENSILE DI MONTEVERDE



Scarlett Ingrid Johansson nasce a New York nel 1984 da padre architetto e madre produttrice ed attrice.
All’età di tre anni già sogna di diventare attrice e dopo soli quattro anni inizia a partecipare ai primi provini per spot televisivi.
Tuttavia, ne rimane profondamente delusa in quanto i pubblicitari mostrano una forte preferenza per suo fratello.
Comprendendone la grande passione, la madre inizia a portarla anche ai provini per le produzioni cinematografiche e teatrali e, a soli otto anni, Scarlett calca le scene insieme ad Ethan Hawke nella pièce teatrale Sofistry.
Recita per il grande schermo dall’età di 10 anni, debuttando nel 1994 nel film Genitori cercasi, in cui ha una piccola parte. Quattro anni dopo, viene scelta da Robert Redford per il film da lui diretto L’uomo che sussurrava ai cavalli, che fa di Scarlett una promessa di Hollywood grazie alla sua interpretazione di una giovane che, cadendo da cavallo, perde una gamba.
Da questo momento lavora in film di grande importanza: compare nel 2001 in L’uomo che non c’era, diretto da Joel Coen, e nello stesso anno nel film di Terry Zwigoff Ghost World, acclamato dalla critica.
Arriva poi il film che, segnandone il passaggio all’età adulta, la rende tra le attrici più desiderate dello star-system, Lost in Traslation - L’amore tradotto, a fianco di Bill Murray, scritto e diretto da Sophia Coppola.
Scarlett si porta dietro una carriera costellata di continui successi: dal Don Jon di Joseph Gordon-Levitt, al supercandidato Lei di Spike Jonze, nel quale l’attrice presta la propria voce a Samantha, un sistema operativo virtuale di cui Joaquin Phoenix (nel ruolo di Spike) si innamora perdutamente.
E proprio a proposito di questa pellicola, la Johansson spiega "da una voce puoi anche essere respinto. Spike voleva che Samantha fosse una creatura libera, entusiasta, senza pregiudizi, nuova alla vita e senza nessuna esperienza. Ho cercato di liberarmi, per quanto possibile, di ogni filtro razionale ed emotivo. Facendo a meno del mio corpo."
Ma che rapporto ha l’attrice con la tecnologia e cosa pensa di quest’ultima?
"Ho da poco acquistato il mio primo Iphone percè il vecchio cellulare non funzionava più: sono all’inizio di una nuova relazione intima!".
Scarlett torna pochi mesi fa sul grande schermo con il film Lucy, diretto da Luc Besson.
Nella pellicola, l’attrice interpreta una ragazza di venticinque anni che studia a Taipei, ma che si sballa di continuo e non sa cosa fare di se stessa.
Un giorno il suo ragazzo la obbliga a consegnare una valigetta in sua vece ma, al momento della consegna, il giovane viene ucciso e Lucy viene rapita.
Costretta a lavorare come corriere della droga viene operata chirurgicamente e le viene inserita nell’addome una sacca contenente un enzima prodotto dalle madri in gravidanza per mettere in moto lo sviluppo del feto, enzima del quale deve essere la passiva trasportatrice.
Tuttavia, a seguito di un pestaggio, questo sacchetto si lacera e il suo organismo ne assorbe il contenuto acquisendo straordinarie capacità fisiche e mentali.
Al fianco dell’attrice recita Morgan Freeman.

mercoledì 11 febbraio 2015

IL MENSILE DI MONTEVERDE HA INTERVISTATO MAURIZIO CALVESI

Maurizio Calvesi, direttore della fotografia italiano, ha contribuito alla realizzazione di circa sessanta film. 
Candidato ai David di Donatello nel 2003 per il film Prendimi l’anima e nel 2008 per I vicerè, entrambi con la regia di Roberto Faenza, si racconta al Mensile di Monteverde mostrando ai lettori una pagina del grande cinema italiano.
“Ho abitato parecchi anni a Monteverde” racconta Maurizio “mi sono poi trasferito vicino Piazza Navona e vi sono rimasto per circa venticinque anni; sono tornato qui solamente un anno fa. Devo dire che in pieno centro storico c’era una mentalità molto più simile a quella di un paese e questo mi piaceva molto. Conoscevo quasi tutti nella zona; il postino lasciava i pacchi al bar, quando non c’era il portiere; se andavo al ristorante e non avevo il portafogli ripassavo in seguito a saldare il conto. Qui, invece, mi sembra tutto un po’ più freddo. A malapena conosco i miei vicini di casa e trovo che questo sia un gran peccato; il quartiere andrebbe vissuto appieno e non in maniera così limitata”. 
Una domanda che non ti è mai stata fatta ma che ti sarebbe piaciuto ricevere?
Di questo lavoro si tende sempre a vedere gli aspetti positivi, ma non ci si chiede mai se sia necessario rinunciare a qualcosa per svolgerlo. Si tratta di un lavoro meraviglioso che tuttavia richiede un grande sacrificio.  Spesso costringe ad allontanarsi dagli affetti più cari e a restare distanti da casa anche per parecchi mesi. 
Quali sono le principali mansioni di cui un direttore della fotografia deve occuparsi durante le riprese di un film?
Il direttore della fotografia è il collaboratore più stretto che il regista ha per quanto concerne gli aspetti tecnini del film. Naturalmente accanto al direttore della fotografia lavorano numerosi assistenti e collaboratori che contribuiscono alla realizzazione del film.
Quando nasce l’idea di girare un film e se ne scrive la sceneggiatura, emerge poi la necessità di trasformare quel testo in immagine e proprio a questo punto interviene il direttore della fotografia.
L’obiettivo è quello di conferire all’immagine la struttura che meglio riesce ad interpretare la sceneggiatura stessa.
A partire dal 2002, con il film “Prendimi l’anima”, hai intrapreso numerose collaborazioni con il regista Roberto Faenza. Parliamo proprio di “Prendimi l’anima”, qual’è stata la sfida maggiore che hai dovuto affrontare lavorando a questo film?
Il copione di “Prendimi l’anima” era nel cassetto di Roberto Faenza da ben dieci anni. Il regista era estremamente affascinato dalla storia di questa donna, Sabina Spielrein, che passa dall’essere amante di Jung al divenire ella stessa psicoanalista.
Mi sono avvicinato a piccoli passi alle idee che Roberto aveva sviluppato nel corso degli anni. Ho letto numerosi testi che potessero aiutarmi a comprendere meglio il periodo storico nel quale si svolgevano i fatti narrati dal film. Sono entrato nel difficile mondo dell’analisi, con il quale non ero mai entrato in contatto prima di quel momento.
All’epoca, poi, venivo da un tipo di cinema molto formale e “Prendimi l’anima” ha rappresentato l’occasione di realizzare un lavoro estremamente più spontaneo da parte mia. Ho ancora nel cuore l’immagine del manifesto del film. Si tratta di un fotogramma nel quale la luce radente e la posizione delle due figure da all’immagine una conformazione quasi cerebrale.
Quali sono i punti in comune tra la fotografia cinematografica e la fotografia tradizionale?
Spesso si tende a confonderle. Si parla di fotografia in generale e non se ne comprendono le differenze. Per me tutto è iniziato con la fotografia tradizionale. Mio zio mi regalò una macchina fotografica per la mia prima comunione. Io ero un bambino timidissimo e non parlavo mai con nessuno.  Iniziai ad andare alle feste di compleanno con la mia macchina fotografica al collo e quando tornavo a casa, di notte, mi chiudevo in bagno, sviluppavo i rullini e stampavo le foto. Si trattava anche di un modo per relazionarmi con gli altri, nonostante la mia timidezza. Da quel momento ho capito che avrei dovuto lavorare con le immagini.
La fotografia del set nasce perchè si vuole rendere quell’attimo di cinema immortale. Basti pensare ad Anita Ekberg. L’immagine di quella meravigliosa ragazza nella fontana rimarrà per sempre eterna.  Quindi la fotografia cinematografica va oltre il racconto di una storia, c’è qualcosa di più profondo che va afferrato.
Tra i numerosi film per i quali hai lavorato sei rimasto particolarmente legato a qualcuno di essi?
Non c’è un film a cui sia affezionato in maniera particolare. Ognuno di esso ha avuto la sua importanza, Anche una pellicola sbagliata ha un ruolo fondamentale, perchè ne precede una nuova in cui si eviterà di commettere gli stessi errori. 
Ci sono stati, invece,  film in cui sento di aver sperimentato molto di più rispetto ad altri, questo si.
Hai ancora aspettative di sperimentazione?
Si assolutamente. Con l’esperienza accumulata nel corso degli anni ho compreso che fare una bella fotografia nel cinema “medio” non è molto semplice. Si riesce ad ottenere il meglio nella grande ricostruzione, quindi nei grandi mezzi, oppure nel cinema minore. Anzi, proprio quest’ultimo offre le maggiori opportunità di sperimentazione. Esso, infatti, consente una maggiore libertà di organizzazione, fattore che manca invece nei cosiddetti “star system” produttivi, nei quali si hanno tempi che bisogna necessariamente rispettare, regole e formalismi che purtroppo impediscono slanci fuori dagli schemi. A breve parteciperò alla realizzazione di un film di questo tipo, con attori sconosciuti, girato interamente ad Ostia. L’obiettivo è quello di renderlo il più naturale possibile, deve essere un film vero.

mercoledì 4 febbraio 2015

Il Tempietto di San Pietro in Montorio, approfondimento del Mensile di Monteverde

Articolo e foto di Valentina Baruffo

Bramante fu il primo a mettere in luce la buona e bella architettura che dagli antichi sino a quel tempo era stata nascosta. È con queste parole che Palladio descrisse l’opera dell’architetto Bramante, suo contemporaneo, che nel primo decennio del Cinquecento progettava il Tempietto di San Pietro in Montorio, sul colle Gianicolo.


Alla base della creazione del progetto bramantesco vi era il tentativo di conciliazione tra gli ideali umanistici e gli ideali cristiani del tempo, tentativo volto alla massima esaltazione di Pietro come Pontefice Romano.
Attraverso una serie di disegni realizzati dall’architetto e teorico Sebastiano Serlio, é nota l’iniziale idea di inserire la struttura del Tempietto circolare all’interno di un cortile anch’esso  della medesima forma geometrica.
Non si trattava certamente di una scelta casuale: nel pensiero rinascimentale, infatti, il cerchio rappresenta il mondo e la stessa perfezione divina.
Non é solo la forma del Tempietto ad avere una giustificazione tanto precisa; anche il luogo scelto non è assolutamente casuale. Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, recita il Vangelo secondo Matteo. E proprio con il martirio di Pietro ha inizio il flusso spirituale della Chiesa. Sul monte aureo fu infitta la croce di Pietro e da allora, per virtù del santo, Roma divenne città centro del mondo.
Non a caso il Tempio ad egli dedicato nasce da un cuore centrale, il punto di infissione della croce stessa, e si dilata attraverso una serie di assi radiali verso il muro perimetrale del cortile porticato.
In alzato la struttura é suddivisa in tre livelli distinti e sovrapposti: una cripta sotterranea al di sopra della quale si erge un corpo cilindrico circondato da un peribolo dorico, coronato da una cupola semisferica su tamburo finestrato.
Profondo ed estremamente poetico é il messaggio allegorico nascosto tra le colonne marmoree della fabbrica: la cripta, sotterranea, rappresenta gli Inferi; il corpo del Tempio diviene allora la Chiesa che domina la sfera terrena; il pavimento, cosmatesco, riporta sul proprio corpo un simbolo medievale che allude al grande labirinto che é la vita umana; la cupola, che tutto ricopre e protegge, diviene allora espressione della sfera celeste, con a capo Cristo nella gloria dei cieli.


Non é tutto; un’altra circostanza piuttosto significativa riguarda la particolare attenzione posta nei confronti di alcuni numeri, in particolare, che sembrano essere privilegiati all’interno dell’impianto. Tra questi, il numero 16, che misura le colonne del Tempio nonché del portico anulare che lo circonda; il numero 16 può essere scomposto nelle cifre 10 e 6 che, secondo la disciplina matematica, sono tra i cosiddetti numeri perfetti. Ma ancora, il numero 16 comprende la sua metà, il numero 8, il quale richiama la nascita del Mondo, otto giorni dopo il principio della creazione. Otto sono le nicchie e le finestre e quattro, sua metá, sono gli ingressi al cortile.
Attraverso sistemi linguistici di questo tipo il programma dell’opera si poneva l’obiettivo di esprimere il messaggio universale dell’architettura bramantesca e della religione cristiana.
Bramante, primo architetto del prestigioso cantiere dell’attuale Basilica di San Pietro, voleva creare un edificio moderno che apparisse progettato alla maniera degli antichi, perché avesse prestigio e autorità al pari dei monumenti romani. 


Progettando un impianto radiale, Bramante dovette pensare attentamente alle dimensioni dei singoli elementi proposti, definendoli proprio attraverso l’utilizzo degli assi radiocentrici sui quali si basa l’intero impianto.
Per questo motivo le colonne del peribolo esterno risultano più corpose rispetto a quelle del portico della cella. 
Purtroppo il progetto non fu mai realizzato nella sua interezza.
I problemi più importanti furono dovuti alla dimensione piuttosto limitata dell’opera. Studiando attentamente la planimetria serliana si è subito notato come le paraste corrispondenti alle colonne esterne ed interne risultassero rispettivamente più grandi e più piccole delle colonne di riferimento, concetto assolutamente corretto dal punto di vista compositivo dell’opera ma in netto contrasto con il concetto stesso di parasta, la quale altro non dovrebbe essere che la semplice proiezione del supporto verticale (precisamente la colonna), e quindi larga quanto quest’ultimo.
Fu forse per questo motivo che mai, prima di Bramante, si era pensato di inserire l’elemento della parasta su di una cella circolare?
Bramante tentó di ovviare a questo problema non, come si potrebbe pensare, restringendo le paraste delle colonne minori, bensì tentando, seppur in maniera piuttosto approssimativa, di riprenderne le dimensioni. 
E fu proprio per questo motivo che l’architetto si scontrò con una problematica ancor più profonda: la non universalità delle regole. 
Così, se l’Umanesimo postulava l’assolutezza delle regole architettoniche a prescindere dalle dimensioni del manufatto, Bramante sembra porsi nella posizione di dover saggiare tale principio sondando nel Tempietto i limiti del grandemente piccolo e dell’immensamente grande, scontrandosi con la complessità soprattutto della prima.
Si spiega, dunque, la ridotta spazialità riservata ai vuoti rispetto ai pieni; le finestre sembrano quasi soffocate dalle solidità laterali, tanto che le mostre delle aperture non trovano posto sulla parete cilindrica. L’architetto lavora, quindi, su lievi aggetti, scavi violenti, cavità ombrose, generando un ritmo incalzante in costante tensione.
Ed é sicuramente questo il punto di espressione più alto della poetica bramantesca. Dalle difficoltà egli trae ispirazione per la personale espressione, fino al posizionamento della porta principale. 


Al fine di esaltarne il significato simbolico e non solo pratico di accesso alla Chiesa, Bramante realizza una porta assolutamente fuori scala, di dimensioni maggiori di quelle disponibili, tagliando bruscamente le paraste laterali e negando dunque il valore portante di queste ultime.
Bramante si libera da qualsiasi vincolo del metodo e chiude la sua opera straordinaria inserendo un lanternino, alto e visibile, sulla cima della cupola, che consenta all’osservatore di comprendere quale sia il perno ideale dell’intero progetto, l’asse verticale che, come una freccia, scatta dal punto in cui fu infissa la croce e si ricongiunge al Cielo nella glorificazione dell’apostolo.



I protagonisti di Zelig fotografati dal Mensile di Monteverde

Per due mercoledì al mese, presso il Teatro Golden, si rinnovano gli appuntamenti con gli spettacoli live di Zelig. Lab on the road


Approfondimenti sul numero di Febbraio.

il Nuovo film di Joaquin Phoenix in anteprima per Il Mensile di Monteverde

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Ludovico Fremont e Valerio Morigi per il Mensile di Monteverde

Ludovico Fremont e Valerio Morigi in scena al Teatro Golden con lo spettacolo "Uomini senza donne", di Angelo Longoni.
Approfondimenti sul numero di Febbraio.